Un bambino di troppo
Un bambino di troppo
di Alfonso Lagi
È successo quando facevo il mio internato nelle sale parto dell’università in cui mi sono laureato. All’ultimo anno lo studente deve prendere confidenza con i pazienti e soprattutto fare esperienza, perché presto sarà in prima linea. Naturalmente tutto si deve svolgere sotto il tutoraggio di un medico anziano e quindi, per definizione, esperto nella materia. Si sa che i ginecologi sono, forse più di altri colleghi, inclini alle scappatelle. Si dice sia perché in sala parto le cose accadono da sole, si tratta di assistere a un evento naturale. Il ginecologo sorveglia e interviene solo in caso di complicazioni, per la verità sempre dietro l’angolo. E cerca di limitare il dolore, che è il vero problema delle primipare. Alla fine degli anni ’60, quando non esisteva l’epidurale, tutto si risolveva in qualche soffiata di protossido di azoto nel momento culminante dell’espulsione del feto. Una soluzione rapida e di poco impegno.
Si tratta di una bella ragazza, per quanto la bellezza sia ancora visibile in una primipara a termine, impaurita da quello che l’aspetta e già provata dalle prime doglie. Un portantino le dice qualche parola d’incoraggiamento mentre spinge la barella dell’ambulanza in sala travaglio. Le sorrido e lei mi risponde con uno sguardo disperato, gli occhi sbarrati, la pupilla fissa, gli angoli della bocca stirati in una smorfia di dolore, i capelli castani, lunghi e belli, scompigliati sulla fronte. Mi porge una mano e io rispondo stringendola con la mia.
“Stia tranquilla signora…”
Le mie parole sono interrotte da un mugolio che si trasforma in grido. Una contrazione le impedisce di rispondermi. Siamo fermi entrambi, lei distesa sulla barella, io in piedi come un palo accanto a lei con il mio camicino bianco ordinatamente allacciato. La procedura vuole che qualcuno esperto si faccia avanti e controlli, inserendo due dita nella vagina, la dilazione e la lunghezza del collo uterino per definire il momento del parto.
Io non lo so fare.
Si apre la porta e una donna di mezza età, anche lei scarruffata, con il volto segnato dall’ansia e probabilmente anche della fatica, pronuncia a mezza voce il norme della prossima puerpera: “Laura… Laura…”. Poi mi si avvicina con sguardo interrogativo: “Dottore, allora che facciamo, le dà qualcosa per il dolore?”.
Rimango in silenzio mentre giro leggermente la testa per sincerarmi che non si sia rivolta a un dottore vero, miracolosamente e tempestivamente comparso alle mie spalle. Niente da fare, sono sempre solo. Faccio qualche passo sulla mattonella da cui non mi sono mosso e sorrido alle due donne. Ma la gravida caccia un nuovo urlo mentre l’altra – sua madre – mi urla: “Faccia qualcosa!”. Allora mi decido: suono il campanello della corsia e, con un’ultima raccomandazione di stare tranquille, mi precipito alla ricerca se non di un medico almeno di un’ostetrica. Sono tutte in sala parto. Mi avvicino alla prima che vedo e la informo della situazione in sala travaglio. Lei non sembra darmi ascolto, continua a trafficare, le mani fra una testa di neonato e una vagina aperta. Allora imploro e minaccio finché una non si toglie i guanti e mi dice con tono compassionevole: “Va bene, andiamo”.
L’ostetrica prende in mano la situazione, somministra un analgesico e poi via con due dita. Mi dice che il collo c’è ancora e che la dilatazione è indietro. Si informa da quanto tempo la donna ha le doglie e le dice che non deve aver fretta, ancora il parto non si è aperto e potrebbero passare delle ore. Che la donna stia tranquilla, che lei o qualcun’altra passerà fra un paio d’ore.
Un paio d’ore? E cosa facciamo fino ad allora? Non so darmi una risposta. Purtroppo la stessa domanda mi arriva dalla barella fra un urlo e un lamento. “Stia tranquilla il parto si sta per aprire”. Uso volutamente un gergo tecnico per non essere costretto a spiegazioni più precise che non saprei dare. “Bisogna sopportare la contrazione. Pensi, cara signora, che a ogni contrazione il suo bambino si avvicina di un centimetro al punto di uscita”.
Lei mi guarda con gli occhi umidi e mi stringe la mano, si morde un labbro e infila le unghie nel mio palmo. Sento un gran dolore ma faccio finta di niente, anzi le dico altre parole di incoraggiamento.
“Dottore, posso bagnarle le labbra?”, mi chiede la madre. Non so che dire, non vorrei combinare un guaio con il mio assenso. Alla fine decido, forse in modo azzardato: “Sì, bagni il fazzoletto e la faccia succhiare”. La donna sembra apprezzare. Che emozione, la mia prima terapia è stata un successo.
Passa più di mezz’ora e non si vede nessuno. Mi chiedo dove sia andato il ginecologo che mi dovrebbe tutorare. Se glielo chiedessi mi direbbe che ha avuto un’urgenza, in realtà sospetto che sia fra il bar e una chiacchera con qualche infermiera compiacente. Ormai è notte fonda e non si vedono altre partorienti, se ne arrivasse un’altra probabilmente arriverebbe anche qualche addetto, ma sembra che stasera tutte le gravide si siano dimenticate di partorire. Forse non c’è la luna, penso. Ma che effetto farà la luna? Dicono che favorisca il parto. Ma sarà vero? E se me lo chiedessero all’esame lo dovrei dire o farei la figura del coglione?
“Il battito, dottore, che mi dice del battito?”. Mi rendo conto che la donna non si riferisce a possibili colpi alla porta. Le prendo il polso, mi sembra accelerato ma poi mi viene l’illuminazione: lei vuol sapere del battito fetale. Ah già, è importante… una variazione indica sofferenza fetale o forse anche la morte del feto. Può accadere durante il travaglio? Non lo so ma penso che sia possibile, certo che può accadere! Accidenti ma qua nessuno controlla il battito?
“Certo, per ora sta andando bene”. Prima regola rassicurare, poi mi svincolo e torno alla ricerca della solita ostetrica. Naturalmente non c’è. Le vedo tutte e tre che stanno sorbendo il caffè in una stanzetta vicino alla sala parto. Forse sono stanche. Mi pare di aver capito che hanno lavorato ininterrottamente per ore.
“Scusate… – mi faccio avanti rivolgendomi all’ostetrica che ha già visitato la paziente – ma il battito?”. Una di loro mi rivolge lo sguardo di disprezzo riservato a noi studenti. Un’altra si alza e mi dice: “Ci vuole un medico, quello di guardia, dottore!”. L’ultima parola è strascicata e sottolineata. Va in sala travaglio, si avvicina alla partoriente e senza neppure un avvertimento giù altre due dita dentro: “Eh, cara signora, bene, sta facendo progressi. Qua c’è rimasto un centimetro, siamo già a tre”. Sorride.
Io non capisco, solo dopo qualche anno mi ricorderò che l’ostetrica indicava la lunghezza del collo e la dilatazione.
Accenno a voler dire qualcosa ma rinuncio, almeno così eviterò una nuova umiliazione. Rimango accanto a Laura, che adesso affronta i dolori con maggior determinazione e coraggio. Mi stringe la mano e io la ricambio. La madre le carezza l’altra mano.
Ecco che si apre la porta e arriva il medico, quello vero. Camice svolazzante e passo svelto, falcata lunga, nonostante l’ora tarda. Si vede che ha ancora energie da vendere. Mi saluta con un cenno e, come se parlasse a un collega, mi chiede: “A che punto siamo qua? Dilatazione?”.
“Tre centimetri”, rispondo.
“Hai sentito?”.
“No, l’ha fatto l’ostetrica”.
“E tu non hai misurato?”.
“No… non saprei…”.
“Mettiti un guanto”, mi dice con voce perentoria. Nel frattempo lui l’ha già indossato e infila la mano nel solito posto. Ho anch’io il mio guanto ma sono insicuro sul da farsi. Se penso a quanta fatica si deve fare per convincere una ragazza, per strapparle un assenso… e invece qua chiunque passa può allungare la mano e nessuna ha niente da ridire!
È il mio turno, lui mi guida, non sento niente ma faccio finta di aver capito. Concordiamo che il gran momento si avvicina. Via, trasferita in sala parto. Un portantino spinge la barella, sono sempre al suo fianco e le tengo la mano. Finalmente ci siamo. Laura è sul lettino del parto, le ginocchia sollevate e le cosce aperte. Tutti sono lì, gli occhi convergenti sullo stesso orifizio, a controllare quello che sta succedendo. Lei urla, gli altri le danno sopra la voce con grida di incoraggiamento. Ecco arriva il momento, esce una testa, poi un corpo, è un bel bebè che fa subito il suo primo vagito ma… il parto non è finito, ce n’è un altro! Ricominciano i dolori e le urla da parte di tutti. Mi guardo intorno con aria stupita. Sì l’ho sentito dire dei parti gemellari ma nessuno mi ha avvertito che fosse questo il caso. Ecco, arriva anche il secondo. Sono due bei bambini. Tutti si congratulano con loro stessi e con la neo mamma. Tutto è andato per il meglio. Io ho assistito al mio primo parto. Non so se ce ne saranno altri in futuro. Non credo.
Mi accorgo che Laura piange. Sarà la commozione, penso. Le vado vicino per consolarla e le chiedo il motivo di quelle lacrime. “Vede, dottore – mi sussurra piangendo, e io non sono neppure sicuro di capire tutte le sue parole – del primo so chi è il padre ma del secondo non sono assolutamente certa”.
Non posso fare a meno di pensare che con ostetricia sono proprio rimasto indietro.